Tutti siamo soli in questo mondo.
Molti pensano di esserlo più di altri.
Qualcuno lo è.

11.3.10

Ora vado avanti veloce.

Sono seduto a gambe incrociate sull'argine della strada e cerco di stendere la cartina che il troppo vento richiude. Le macchine non aiutano. La fisso con alcune pietre. Sono accanto ad un vecchio musicista che con la chitarra biascica qualche canzone di De André. Passo con il cappello tra il pubblico distratto mentre il vecchio chiude gli occhi trasportato da note che vorrebbe e che non escono. Quando mi presento con il bottino non capisce e facciamo a metà. Avrà pensato ad una generosa elargizione. Seguo la strada con l'indice fino a Parigi. Poi Lione, Torino, Genova. No, non posso tornare. Si accosta la macchina e sento lo scatto delle sicure. Un coltello spunta dal sedile posteriore e mi si adagia sul collo. Freddo. Ha sempre quella dolce consistenza che inebria. Di quando adolescente mi incidevo le iniziali della mia ragazza sul braccio. Dolce, concreta consistenza. Si ferma un pulmino pieno di ragazzi strafatti. Non ci voglio credere. Qua ci scappa un grande viaggio. Scrivo con il pennarello “Parigi” su un foglio A4. Non si capisce un cazzo. Il cielo sopra Parigi è stupendo.

Son quasi pronto per fermarmi, ma ci vorrebbe una casa, un posto, un luogo, una moglie che mi aspetti a casa, io che torno da lavoro e facciamo l'amore.

Le afferro il dorso della mano. Glielo lascio. “Volevo...” “Volevo dirti una cosa. Ma non so come fare. Che parole usare. Volevo chiederti”.

“Perché non ti fai una donna?” mi chiede il mio autista.
Beh. Non c'è un motivo specifico. E' che non capita. Cioè, lo so, sono io che non lo faccio capitare, lo so, non creo le circostanze. Però a volte ho proprio l'impressione di non piacere. Mi spiego?

“Volevo. Volevo chiederti se secondo te in un futuro c'è la possibilità che io e te si stia insieme. In un futuro immediato, intendo.”

Arturo Bandini, l'autore di “E il cagnolino rise”, è un personaggio che conquista gli adolescenti per un sacco di motivi, il primo dei quali è che, pur essendo uno sfigato, piace alle donne.

No, lo so che non riesco a spiegarlo perché in realtà non riesco a spiegarmelo neanche io. Com'è possibile che pur desiderando così tanto una donna accanto io faccia in modo che ciò non succeda?

Forse ora le cose sono un po' cambiate, sono quasi pronto per fermarmi, ma ci vorrebbe una casa, un posto, un luogo, una moglie che mi aspetti a casa, io che torno da lavoro e facciamo l'amore. Sarebbe qualcosa di nuovo. Anche se non so se sarebbe ciò che sto cercando. A Parigi. Lione. Torino. Finché viaggi niente è reale. Chissà cosa mi è preso quella volta che mi sono messo ad inseguire i controllori della metropolitana che inseguivano il tizio senza biglietto. Poi stanco morto mi sono fermato prima di tutti gli altri. E ancor prima di riprendere il fiato sono scoppiato a ridere. Ridevo in italiano, da solo, ridevo come un matto e nessuno capiva. Ma qualcuno vedendomi ridere mi sorrideva. Ho buttato il diario nella Senna. Poi ho provato a riprenderlo con un bastone ma il lancio era stato troppo bello: nel volo alcuni fogli si staccavano e l'atterraggio è stato lontanissimo. Ho recuperato due fogli, gli altri li ho riscritti la sera stessa, intanto quel quaderno ce l'avevo solo da una settimana. Indicare le città sulla cartina mi dà potenza. Mi sento ora padrone del mio destino. Eppure l'ombra della macchina sulla cartina mi terrorizza. Le mie ombre. Sarebbero tornate?

Arturo Bandini, l'autore di “E il cagnolino rise”, è un maledetto, è incazzato nero contro l'amara roulette della vita che lo ha fatto nascere contemporaneamente povero, italiano e immigrante. Piace alle donne perché deve lottare contro questo destino.

“Ok. Lo accetto. Capisco. Anzi no. Lo accetto, ma non capisco. Dimmi perché, dammi una ragione. Perché non possiamo stare insieme? Dimmi qualcosa. Qualunque cosa. Dimmi che sono brutto. Dimmi che sono scemo. Dimmi che non ti piaccio”

No, non è vero che non è colpa mia.

No.

“Caro mio, se alla tua età ti fai di questi problemi stiamo freschi. Ragazzo, devi spaccare il mondo. Quant'è che non trombi? Ma stai scherzando? E come hai fatto a resistere per tutto questo tempo?”
Ho fatto.
“Ti ammazzerai di seghe?”
Aumentano il mio senso di colpa.

Dopo aver dato al possessore del coltello il portafogli con i pochi soldi che avevo messo da parte mi sono reso conto che non mangiavo da ventiquattro ore. Quando non puoi mangiare poi la fame aumenta, sa? Pensavo di morire. Sono andato al solito bar e non so cosa pensavo ma nella mia testa prima della fine del panino il problema si sarebbe risolto. Poi è finito il panino e il problema non si era ancora risolto. Mi dispiacque un sacco, glielo giuro. Avrei voluto scomparire. Sono andato in bagno dandomi quella come ultima possibilità per inventare qualcosa, ma niente. Quando sono tornato in sala non c'era più nessuno ed è stato istintivo: sono scappato. Ho corso per due minuti e poi mi è cascato nuovamente il mondo addosso: avevo dimenticato il mio diario dentro. Sono tornato indietro, non avevo scelta, capisce? Fermo davanti alla vetrina su cui dava il mio tavolino vedo il diario e la cameriera che proprio in quel momento, raccogliendo il piattino, realizza l'accaduto. Poi mi vede, sgrana gli occhi e, se il riflesso del sole sul vetro non mi ha ingannato, mi fa segno di andarmene. Ma non potevo, capisce? Forse, quando sono entrato, ha pensato che mi volessi consegnare, perché sembrava davvero dispiaciuta di dovermi denunciare all'altro cameriere, quello grosso.
Uscendo dalla centrale di polizia gettai il diario nella Senna, poi provai a riprenderlo con un bastone.

“Comunque sono vissuto fin'ora senza di te e non vedo perché non potrei farlo ancora. Solo che è davvero strano. E' incomprensibile. Forse tu non vuoi stare con me perché te l'ho chiesto male. Perché ho aspettato troppo tempo o troppo poco. Forse perché non ho colto quell'occasione in riva al mare, soli, io e te. Forse perché non mi sono mai fatto avanti esplicitamente. Forse perché l'ho fatto e dovevo aspettare un tuo segnale. Forse... Sarebbero tutti motivi stupidi per non stare insieme.”

Ho paura di essere nuovamente lasciato e finisco per lasciare prima io. Tutto. Il lavoro, gli amici, la mia vita.
Certo, non mi viene in mente cosa più stupida che si possa fare.

E ora?

Ora passo con il cappello in fondo a quei mucchietti di gente che si formano intorno agli artisti di strada particolarmente bravi. La maggior parte della gente se la intaglia e mi ignora, ma qualcuno ci casca. Faccio comunque più di una semplice colletta.

E non risolvo un cazzo.

Comportandoti in maniera folle si forma un mucchietto di gente che ti osserva curiosa facendo finta di niente e sperando di non essere notata in quell'atteggiamento voyeuristico e indiscreto. Se poi ad un tratto sveli il gioco dichiarandoti artista di strada e indicando quella appena svolta come una performance la gente per senso di colpa, o forse è meglio dire per vergogna, si sente in debito con te. Giù soldi.

E non risolvo un cazzo.

Finché viaggio niente è reale. E non risolvo un cazzo. Accenderò un'altra candela e permetterò nuovamente alla mia ombra di formarsi dietro di me. E di spaventarmi. Ingenuo.

Ecco come sono arrivato al BlueLips bar.

2.2.10

Poi, un giorno, finì il decennio e conobbi Suzanne. Non può il capo di un uomo restare troppo tempo chino. E non potevano i miei occhi restare troppo a lungo fissi sui miei piedi. In un negozio di elettrodomestici eletto a rifugio pomeridiano dal freddo, ricordo, avevo notato nell'enorme schermo del televisore LG offerto da Sky un “-3” sotto il logo di MTV. Il giorno dopo lo stesso fenomeno si era riproposto sopra il logo di Italia 1. Questa volta c'era un “-2”. L'evento doveva essere di grande interesse; valeva la pena rompere il mio ostinato e astioso silenzio. Parlai, domandai, chiesi in giro. Ottenni una decina di insulti e altrettante risate: la gente è solita reagire in maniera bizzarra a ciò che non comprende. Io bestemmiavo e ridevo con loro, tanto per non sembrare troppo strano, li assecondavo. Quando, però, unendo gli indizi, svelai il mistero, capii che qualunque cosa avessi detto, con quella iniziale domanda l'etichetta di “strambo” era già cucita. Di lì a due giorni il mondo avrebbe festeggiato quei dieci anni che io avevo passato a cercar di fuggire, di perdermi, di sparire. Lì per lì la notizia non doveva essermi parsa di grande interesse, ma poi qualcosa cambiò. Sarà stata la coscienza di essere in un periodo consono al tirar le somme o quel vedermi circondato da schermi e da persone che avevano occhi solo per quegli schermi, insomma, mi invase una sensazione di vittoria. Ce l'avevo fatta. Ero scomparso. Perso, sparito, fuggito.




Ora che ero morto potevo rinascere. Diventare un nuovo personaggio di uno di quei romanzi che narrano la vita di un'intera dinastia. Sarei stato il figlio di quello di prima. Intrinsecamente legato agli antenati di cui conosciamo vita, morte e miracoli, ma pur sempre un personaggio tutto da scoprire.
Decisi di tenere un diario di viaggio: una prima testimonianza della mia nuova vita. Scrivevo, cioè, di me per prendere confidenza con l'idea di esistere. Per permettermi un quaderno e una penna avevo dovuto cominciare a chiedere l'elemosina e la cosa, se ben ricordo, non mi dispiaceva affatto. Conoscevo, anche se per brevi attimi, un sacco di persone e la colletta mi permetteva di passare i pomeriggi in bar e pizzerie: rifugi più consoni alla mia nuova attività di scrittore. Dopo un mese di lavoro mi ero comprato una borsa in finta pelle per conservare tutte le carte, del tabacco da girare per fumare tra una pagina e l'altra e un set di evidenziatori per meglio orientarmi tra i miei scritti. Ero conscio di non star componendo una grande opera, si trattava per lo più di liste di cose viste, di cibi mangiati e di dolori avvertiti. Il tutto, però, mi faceva stare bene. Fu in uno di questi momenti di pace con me stesso che vidi per la prima volta Suzanne.




Ero seduto in un bar a compilare il mio diario e avevo appena convinto la cameriera a portarmi un panino senza bibita, senza contorno e senza menù speciale quando una ragazza di poco più di un metro e mezzo, con capelli castani corti ed una treccina che le scorreva lungo il collo, con gli occhi chiari e un forte rossetto rosso sulle labbra, con un sorriso strano e le mani un po' sporche, si sedette al mio tavolo e cominciò a fissarmi. Annotai subito sul diario l'accaduto evidenziandolo con un fucsia grandi occasioni.
-Che fai?- mi disse.
-Prendo nota-
-Hai sbagliato prima- continuò non badando più di tanto alla mia risposta -A non prendere il menù speciale, intendo. E' un'occasione. Se pensi di non riuscire a finirlo ti posso sempre dare una mano io-
Sorrideva ancora. Pensai che non avrei voluto risponderle in maniera maleducata, ma anche che forse non ero più in grado di essere educato. Poi mi uscì qualcosa del tipo: -Che, non hai neanche i soldi per prenderti delle patatine?- Non era un granché e lei ne arrossì, ma senza smettere di sorridere avvicinò la bocca rosso ferrari al mio orecchio destro e sussurrò: -Sono una nobildonna francese caduta in disgrazia per colpa di certi poveri come te che si sono ribellati. Come minimo dovresti offrirmi delle patatine-.
Ribattei, forse credendoci troppo, che le patatine se le poteva scordare e che comunque, viste le vicissitudini passate, era già fortunata ad avere ancora la testa sopra il collo. Ma forse avrei dovuto dirle che non avevo soldi a sufficienza, forse l'avrei fatto, se lei non mi avesse interrotto.
-Poteva andarmi peggio!- mi disse infatti con fare molto divertito -Eh sì...poteva andarmi peggio!- Poi, sforzandosi di assumere un atteggiamento più serio, aggiunse: -Sai? C'è un vecchio contadino nei miei possedimenti che, ogni cosa che gli viene riferita, risponde con un “Poteva andare peggio”. Un giorno gli dicono che il suo vicino è morto suicida dopo aver scoperto e ammazzato la moglie con l'amante. Lui, al ché, risponde con il solito “Poteva andare peggio” e poi, vedendo la faccia sbigottita dei presenti, aggiunge: “La settimana scorsa a letto con sua moglie c'ero io”-.
Detto questo quella strana ragazza cominciò a ridere così scompostamente da imbarazzare persino me. E mentre, fronte aggrottata, cercavo di capire il motivo di quel racconto oltre che di quella eccessiva risata, mi schioccò un bacio sulle labbra e si allontanò, ancora ridendo, dal bar. Quella sera sfilai dal cellofan l'evidenziatore azzurro e nella giornaliera lista di cose fatte evidenzia la parola “bacio”; anche se, a dirla tutta, io non avevo fatto proprio niente.




Il giorno dopo rividi la stessa ragazza in un altro bar della via Emilia, dieci chilometri più vicino a Parma rispetto al precedente. Doveva aver percorso in macchina ciò che io avevo percorso a piedi. Era abbracciata ad un ragazzo sui trent'anni, sguardo assente e labbra leggermente incurvate in un sorriso. Mentre venivano a sedersi nel tavolino vicino al mio lei mi scagliò uno sguardo e, credo, un occhiolino. Dopodiché non esistetti più e, pubblico in ombra di un palco ben illuminato, assistetti a scene di ordinario corteggiamento e frivolezze varie. Tra l'annoiato e l'infastidito per l'eccessiva banalità dell'opera, soprattutto rispetto all'originale della prima, decisi di andarmene. Rinfilai tutte le carte nella borsa e andai a pagare alla cassa. Fu in quel momento, in un'ultima occhiata al palco, che notai una mano di lei infilar un pasticcino nella bocca di lui, mentre l'altra mano gli sfilava dalla tasca del cappotto il portafogli. Questo era troppo. Quella ragazza doveva essere un discorso chiuso. E così sarebbe stato se il giorno seguente non si fosse fermata sul ciglio del mio passeggiare un'auto sportiva col tettuccio aperto e lei all'interno.




Insieme alla ladra in quella macchina c'era un ragazzo alla guida, uno che non avevo mai visto e che a pelle non mi risultava molto simpatico. Mi fece segno di salire. Obbedii. Mi sistemai sul sedile posteriore tirandomi su il cappuccio della felpa e incrociando le braccia al petto per il troppo vento. Attraverso il freddo li vedevo scherzare. Dopo una ventina di chilometri ci fermammo per mangiare una cosetta insieme, il tizio sconosciuto mi aveva fatto segno di seguirli. Due passi dopo di loro cominciavo a capire tutto: era la storia di un'autostoppista ladra che incantava i ragazzi e rubava loro i soldi. E capivo l'occhiolino di complicità il giorno prima, il suo avvicinarsi a me quello ancor prima. La trama della farsa era spiegata e io da pubblico diventavo attore. Per un attimo pensai di avvertire il ragazzo, di fermarla e forse di farla arrestare. Ma il ruolo che sentivo calzarmi meglio era quello di complice, quello che probabilmente lei aveva scelto per me. L'occhiolino, il bacio, quel viaggio in macchina: erano le uniche cose che ci potevano collegare, ma non ci avrebbero scoperto mai.




Poco dopo esserci seduti e aver ordinato la mia complice andò in bagno lasciandomi il compito della conversazione. Dovevo svolgere al meglio la mia parte e ci provai, ma non fu per niente semplice, tanto che dopo poco, invaso dall'imbarazzo, mi misi ad annotare sul diario quello che di lì a poco avrei mangiato. Lui allora, per uscire a sua volta dalla difficile situazione, la andò a cercare in bagno promettendo ad alta voce unioni clandestine là dove si sarebbe trovata. Poi uscì dal locale, rientrò correndo e riuscì ancora più velocemente, urlò disperato: -Quella stronza mi ha fottuto! Figlia di troia! Porca puttana! Mi ha fottuto la macchina!- Urlava, imprecava e chissà che faccia stavo facendo io. Probabilmente un misto di sorpresa e delusione, un'espressione buffa e scema, sicuramente. Il tizio poi venne minaccioso da me: -E te? Non sei suo complice? Cosa cazzo ci fai ancora qua? Perché non sei scappato con Suzanne?-
-Suzanne?- non sapevo neanche si chiamasse così -Non la conosco. Giuro.- E di sicuro lo stupore e la delusione erano ancora ben impressi sul mio viso perché mi credette.
-Ma allora perché ha voluto che caricassi su anche te?-
-Non lo so. Davvero. Non lo so-
-Mah... Avrà voluto fregarne due invece che uno quest'oggi- concluse lui con rassegnazione.
Certo, per rimediare al flop di due giorni fa, pensai io. Ma non lo dissi.




Ci fermammo a mangiare ciò che si era ordinato, compreso il menù speciale con doppia razione di patatine scelto da Suzanne, e alla fine pagai io con l'intera colletta di due giorni, poiché il mio compagno di sventura era rimasto anche senza portafogli. Poi chiacchierammo per un paio d'ore di donne, di fregature, di Suzanne e di quanto, tutto sommato, fosse veramente bella. Ci trovammo concordi sul fatto che mai eravamo stati lasciati da una donna così velocemente, ma che questa storia in sostanza non era molto diversa da altre che avevamo vissuto. Mi sorpresi ad aggiungere: -Dai, poteva andare peggio. Almeno non abbiamo dovuto conoscere i suoi genitori-. Infine accompagnai il mio primo nuovo amico alla stazione e lì ci salutammo per sempre.




Nei mesi che seguirono spesso ripensai a Suzanne. Occupava gran parte dei miei pensieri. Non ero arrabbiato. Provavo un forte sentimento per lei; forte, violento e incontrollabile. A volte mi convincevo che fosse amore, altre volte concludevo che era solo curiosità. E mi interrogavo: come potevo confondere le due cose? Non riuscivo a capirlo. E non capivo neanche perché di tutte le ragazze di questo mondo io ero curioso di conoscere solo questa maledettissima Suzanne.

18.11.09


I sogni non mi erano di sollievo, anzi. Ai primi sintomi di sonno Fatima mi afferrava la mano, le sue unghie lunghe, curate. I miei occhi appena chiusi si aprivano sui suoi capelli lunghi fino al sedere, appoggiati alla veste bianca. La scollatura davanti faceva intravedere le rotondità dei seni. I piedi nudi fermi sulla terra marrone. Le caviglie sottili, che sole dicevano di un corpo nudo sotto la veste. Le guardavo le labbra, sorrideva. Libera da peccati accompagnava la mia ascesa all'Empireo. E io non riuscivo a guardare i cieli intorno a me, fissi com'erano i miei occhi sul suo corpo. Fissa com'era la mia attenzione su quella mano che stringeva la mia: contatto con il desiderio. Tutto poteva essere eterno, potevo essere accompagnato da quella mano fino alla Rosa dei beati, ma la sentivo scivolare, scorrere sulla mia. Sentivo la presa lasciarmi, farmi precipitare, cadere. Ora guardavo il suo viso proteso all'infinito allontanarsi e pian piano bruciare arso dalla luce di quel Dio così diverso da me. Io a terra, il culo su quel pavimento bagnato che avevo eletto a mio giaciglio. Ero nel cielo di Venere circondato da amanti, proprio io che amante non avevo. Lasciare quella mano il mio peccato. Passar l'eternità in Paradiso il mio contrappasso. E allora forse avrei preferito aprire gli occhi perché su quel pavimento bagnato, ne ero sicuro, nessuno poteva essere felice. Quando mi ero addormentato in tutta la stazione c'erano poco più di due tossici, e allora forse svegliarmi e guardare i loro occhi mi avrebbe fatto dimenticare quel viso proteso all'infinito. Quelle caviglie. Quelle labbra. E i baci degli amanti intorno a me.
Ma quando sei stanco ed ubriaco non puoi fare a meno di sognare e ricordare. Dieci anni prima, una fredda sera, c'era la neve, era un bellissimo dicembre. Maligno spirito del Natale passato! A rapirmi è il fantasma di Dickens. Stronzo. A trascinarmi spettatore di quel mio passeggiare accanto per bancarelle in cerca di regalini per amici. Fatima al mio fianco, lei in mia compagnia. Eravamo felici agli occhi degli altri e in quegli occhi, nello sguardo dei venditori, mi vedevo felice. E lo ero. Allora mi chiedevo come fosse possibile e ora volevo rispondere, zittire il Dickens chiacchierone, moralista molesto, fermare con la mano sul suo petto la mia copia passeggiante felice e dirgli: “E' questa. Nient'altro. Goditela. Sarai felice finché gli altri così ti immagineranno, poi questa sera seduto al bancone del pub cercherai di ricordare questi bei momenti e vorrai condividerli allegro con la barista, ma lei, vedendoti solo come un cane, ti immaginerà triste e la tua felicità passerà”. Ma l'uomo non può interferire con i propri ricordi, essi si modificano a sua insaputa: ciò che ti rendeva felice ora ti riempe di gioia e lacrime il cuore e ciò che ti faceva soffrire ora ti fa piangere di dolore. E allora fanculo Dickens e fanculo Fatima. Svegliati! Svegliati prima di sognare le vostre labbra baciarsi, non vi siete mai baciati, svegliati prima di vederla nuda attenderti a letto, che mai così l'hai potuta ammirare, svegliati ora perché se ancora indugi al risveglio ricorderai questo sogno e il pensiero che ti coglierà ucciderà tutto. Ma non ne ho mai fatta una giusta con Fatima e in quelle notti mi soffermavo ancora a lungo a pensare a tutte le dolci frasi che ho udito pronunciate da lei, mi soffermavo così al lungo da lasciarmi riscaldare le palpebre dal primo sole, facendole lentamente sbocciare nella primavera della mia giornata. Poi il crampo allo stomaco. Mi mettevo seduto con le mani strette sopra la pancia. Il dolore dell'umidità mi saliva dalla schiena al torace. Il cuore accelerava, la testa mi girava e mi pesava molto più di quanto il collo riuscisse a sopportare. Mi dovevo sdraiare nuovamente, ma non lo volevo fare, sapevo che non ci sarebbe stato più sole, niente fiori ma solo passanti infastiditi e neon ronzanti in stazione. Sapevo che non avrei potuto fare a meno di pensare che Fatima non era mai esistita, il suo, per me, era poco più di un nome di fantasia. Una commessa sconosciuta di un negozio di biancheria femminile lungo il viale principale della città. Una compagnia di corso seduta troppo lontano per poterle rivolgere la parola. L'amica di un'amica del mio amico. Aria. Fatima era una ragazza che non avevo mai conosciuto. E allora perché stavo continuando a sognarla? Perché non ricordare i bei momenti con Sonia, i dolci abbracci con Valentina, le trasgressive nottate in compagnia di Patrizia e Vanessa? La mia vita sentimentale andava davvero completamente buttata nel cesso per far spazio ad un bel visino e a delle stupide caviglie sottili? Non potevo pensare di essere così superficiale. E soffrivo. Il dolore echeggiava nel mio stomaco vuoto. Ogni mattina mi svegliavo per dimenticare la notte. Ogni sera mi addormentavo per dimenticare la giornata.

22.10.09


Bene. Questo era un po' il primo capitolo della mia storia. Ora inizia il secondo atto. In esso la scenografia è quella scarna e asettica di un reparto di psichiatria di un ospedale di Genova. C'è un corridoio molto stretto ferito su un lato da sei camere da letto, una saletta e una stanza sempre chiusa. Nelle camere ci sono letti, sedie, comodini, lavandini e pazzi. Nella saletta tavolini, sedie, una televisione e occasionalmente qualche pasto. Nella stanza sempre chiusa medici, infermieri, fogli, numeri, parole, medicine e, penso, una macchinetta per prendersi le bevande calde. Se non c'è quella c'è almeno una moka. Poi i personaggi. In scena ci sono sempre io e un gruppo di comparse di poca importanza, sia che abbiano il camice, sia che abbiano i calmanti.
Il copione, ahimè, non brilla per originalità. Che dire...il matto lo devi saper fare... Ci vuole inventiva, è un'arte esser diversi e stupire, sempre, convincere che il pensiero può seguire strade diverse, sentieri non tracciati sulle carte. Io un artista non lo sono e le mie performance non appariranno mai nei manuali di psichiatria. Ero sdraiato su un prato e immaginavo di essere tutt'uno con il mondo. Scomparivo e non parlavo, non vedevo, non mangiavo per giorni. Poi la resurrezione con movimenti fluidi e il sorriso semplice di chi arriva a tavola quando è pronto. Già visto. Ero un foglio su cui incidere la mia sofferenza. Farsi oggetto è stata l'esperienza più semplice della mia vita e con infinita naturalezza il dolore era anch'esso oggetto e finalmente comprensibile. Poi mi sono lasciato prendere la mano e ho inciso, inciso, con cattiveria, crudeltà, massacravo quel corpo inerme e tornavo uomo, crudele, cattivo, sofferente. E' stato bello farsi curare per mesi interi, ma niente di più. Giurai di non farlo più perché in quel modo, mi spiegarono, facevo del male anche a chi mi stava vicino. E le mie performance calavano con la velocità con cui le dita degli infermieri entravano nella mia bocca spalancata. Una sorsata, deglutisci, apri di nuovo. Già visto. Dopo un po' cominciai a trovare divertente utilizzare la stessa procedura per magiare il rancio precotto. La psicologa della Salute Mentale seduta ai piedi del mio letto sosteneva che potevo far così anche con la vita. Mettere le cose che non mi piacciono, che mi fanno star male, in fondo alla lingua e con una sorsata d'acqua fresca buttarle giù. Cominciai a bere molto. Le infermiere ridevano quando in presenza di qualcuno che dava i numeri mi vedevano versare l'acqua, io sorridevo con loro. Quando il mio compagno di stanza tentò di suicidarsi nessuno rise nel vedermi sdraiato sul letto direttamente attaccato alla bottiglia dell'acqua. Nessuno in quel momento mi notò e capii che il mondo non era cambiato, che era sempre la solita merda, che da nessuna parte avrei trovato il mio posto nella società e che potevano andare tutti a farsi fottere. Psicologhe, infermiere, matti, lavandini, comodini, sedie e letti. Fanculo l'ospedale. Stavo perdendo tempo lì. La mia fuga non era ancora iniziata e già mi avevano messo dentro. Tempo due settimane e fui fuori. Il sano lo so fare male quanto il matto, ma c'è sempre bisogno di letti liberi ed è facile far vedere ad uno psichiatra ciò che vuole vedere.
Però un po' mi dispiacque quando uscii. L'idea di essere un matto l'avevo sempre ritenuta allettante e farla cascar così, in meno di un anno... Inoltre un perverso romanticismo mi ha sempre fatto sognare l'amore in manicomio. Matti che si incontrano, uguali e diversi dal mondo. E' un po' che non mi soffermo su questo pensiero, in effetti, ma in quei giorni sofferti l'idea di poter condividere la mia sofferenza con qualcuno era il solo stimolo ad andare avanti. A camminare: questo era il solo modo di procedere che allora mi riusciva. Dritto per dritto, in quella strada, che era sempre la stessa davanti a me. Solo i pensieri scandivano il tempo e segnavano i chilometri percorsi. Dov'ero ieri? In mattinata ripensavo alla mia prima ragazza, al primo bacio, alla prima volta che ho fatto sesso. Nel pomeriggio immaginavo il mio capo quando avrà scoperto che me l'ero filata lasciando il casello scoperto e in serata ho attraversato il pensiero della mia morte su questa strada. Prematura, forse, ma pur sempre dignitosa. Poi i sogni e al risveglio ero in un altro ricordo della mia giovinezza. Piacevole, per lo più, ma turbato dall'inconsistenza pomeridiana, ne sono certo. Viaggiando riuscivo ad attutire il presente e, limitando il mio fare al seguire la strada davanti a me, il mio ora era un passato nella memoria o un futuro della fantasia. Poi, quando era troppo buio per procedere, aprivo una scatoletta di carne, ne mettevo alcuni bocconi in fondo alla lingua e con una sorsata di acqua fresca buttavo tutto giù. Così potevo dormire. E sognare.

9.9.09


Quando cadi in avanti il mondo si fa asfalto. Senti le ginocchia bruciare e ti chiedi se stiano sanguinando. Poi si fondono nel terreno e sai che non ti alzerai più. L'importante allora è farsene una ragione, puoi riuscirci, il mondo è affascinante da qualunque punto di vista. Direi di sì, stanno sanguinando, ne sono più che sicuro. In avanti posso ancora andare: è una flessione, poggio l'orecchio destro. Ogni tre macchine una rallenta, tanto che riesci a vedere i cerchioni rovinati. Sono quasi sempre rovinati. Potrei forse capire se chi guida è un uomo o una donna da quanto lo sono, ma dovrei avere delle conferme, qualcuno dovrebbe fermarsi, far scendere un tacco o un mocassino, far apparire una cicca sotto la suola. Le moto non rallentano, mai. Potrei capire se si tratta di un uomo d'affari o di un ragazzo dal tipo di scarpa, potrei vedere quanto sono sporche, intravedere il calzino. Ogni tanto passa un camion pure l'asfalto trema. Quelli sono degli imperatori e per un minuto poi non vedo più niente, accecato e tutto bianco e quasi vorrei che rimanesse così. La scarpa da ginnastica però potrebbe rappresentare un vero enigma.

Ma si ferma una ballerina. Strano, avrei scommesso su una scarpa maschile, magari da ginnastica, ma inequivocabilmente maschile. Sono due paia di ballerine. Mi afferrano e mi rigirano e l'asfalto si fa stelle. Meravigliose, luccicanti stelle guidano la rotta della mia fantasia. Vorrei morire guardando la via lattea. E sfiorato appena dalle scarpette basse che ancora avverto con i peli delle braccia. Spuntano due facce tonde tonde che sanno cosa è bene e si prendono cura di me. Non devo parlare e non devo decidere, non ce n'è bisogno, ci pensano le due belle faccette rotonde. Chiudo gli occhi e immagino di essere baciato sul mio altare di morte e così, finalmente, essere svegliato. La maledizione che mi ha ridotto in questo stato si rompe, le forze del male soccombono e io vivrò sempre felice e contento con la mia principessa salvatrice. Credo di non star sanguinando dalle ginocchia, forse mi sono solo pisciato sotto. Non sarebbe elegante davanti alla mia principessa.

Qualche mese o forse anno dopo sono su un'ambulanza che corre sul mio mare di asfalto a sirene spiegate. Io ho dormito in questi anni e così le faccette tonde si sono fatte maschili. A pensarci bene se io fossi la principessa sarebbe tutto più adeguato e forse solo così il sortilegio si potrebbe rompere. E mi accarezzano il viso e mi stringono forte il braccio. Ora sento vomitare. Davvero non so come ho fatto, ma vi giuro, mia giuria, che sono riuscito a prendere il secchio e a farlo tutto dentro. Senza schizzare. Ve lo giuro mia giuria. E ho colto l'occasione per un controllo che consiste nel controllare i miei pantaloni e vedere che non me la sono fatta addosso e ricevere i complimenti di tutti i presenti, ve lo giuro, grandi strette di mano, mia giuria, ci sono tutti e un gran buffet e striscioni e palloncini colorati e un regalo tutto nuovo con sopra, ma che simpatici, un grande fiocco di neve e mille altri fiocchi di neve che cadono su quella strada dove fino a pochi secondi fa ero sdraiato, sconfitto, in lacrime. Mio Dio! Ma chi l'ha detto che solo toccando il fondo ci si può dare la spinta necessaria per risalire? Da quando sono nato non sono mai riuscito a liberarmi da queste sabbie mobili e solo ora che più non respiro mi rendo conto di tutti gli appigli che ho avuto in questi anni e che non ho afferrato. Solo ora che i miei occhi sono chiusi ricordo quanto fosse il tempo in cui li ho tenuti aperti e quanto mi sarebbe stato difficile aprirli di nuovo.

L'ambulanza arriva in ospedale. Mi salveranno, lo so, il loro intervento è tempestivo e io sono troppo ubriaco per dir loro che non lo gradisco.

2.9.09


Il mio grido di dolore fu silenzioso. Con una sbarra alzata all'uscita di Genova Ovest silenzio era non dire “buonasera”, “il resto”, “arrivederci”. Era il rumore delle macchine che neanche si fermavano. Il vuoto lasciato da qualcosa che davi per scontato e che ad un tratto viene a mancare. Avverti la cosa. Ti turba. Allontanandomi dal mio posto di lavoro, pensavo alle persone che avevo reso felici per quei pochi euro di autostrada risparmiati. Pensavo a quelle che, mentre stavano pagando al casello affianco, notavano la sbarra del mio alzata. E si mangiavano le mani. Turbate, avrebbero avvertito la strana sensazione di essere state derubate. Il mio grido di dolore avvenne in silenzio, ma fu udito da molte persone, quante ne possono passare in un quarto d'ora dal casello di Genova Ovest. Tante. Sorrisi pensando alla mia voce rimbombare da una macchina all'altra per pochi istanti, minuti. E poi spegnersi, venir dimenticata ancor prima di raggiungere le rispettive mete.
Sto ancora male, ma almeno ora ho la conferma che di essere ascoltato non me ne frega niente. La compassione mi aiuta a smistare il mio dolore, ma poi il senso di colpa tutto rigenera. E l'essere capito: come è possibile spiegarsi se non si ha niente da dire? Avrei lasciato anche un cartello al posto del mio mezzobusto. “Questa società mi opprime” “I miei genitori non mi vogliono bene” “la mia ragazza mi ha lasciato” Ma per società, genitori e ragazza non provo alcun interesse. Così il biglietto lasciato sulla poltroncina regolabile recita malamente le mie poche certezze: “Io ora vado. Scusate.”
Cammino da tre ore sul ciglio dell'autostrada e ormai si è fatta notte. Una notte di stelle, di flash, di asfalto umido e nausea. Mi gira la testa. Mi mancano le forze. Svengo.