Tutti siamo soli in questo mondo.
Molti pensano di esserlo più di altri.
Qualcuno lo è.

22.10.09


Bene. Questo era un po' il primo capitolo della mia storia. Ora inizia il secondo atto. In esso la scenografia è quella scarna e asettica di un reparto di psichiatria di un ospedale di Genova. C'è un corridoio molto stretto ferito su un lato da sei camere da letto, una saletta e una stanza sempre chiusa. Nelle camere ci sono letti, sedie, comodini, lavandini e pazzi. Nella saletta tavolini, sedie, una televisione e occasionalmente qualche pasto. Nella stanza sempre chiusa medici, infermieri, fogli, numeri, parole, medicine e, penso, una macchinetta per prendersi le bevande calde. Se non c'è quella c'è almeno una moka. Poi i personaggi. In scena ci sono sempre io e un gruppo di comparse di poca importanza, sia che abbiano il camice, sia che abbiano i calmanti.
Il copione, ahimè, non brilla per originalità. Che dire...il matto lo devi saper fare... Ci vuole inventiva, è un'arte esser diversi e stupire, sempre, convincere che il pensiero può seguire strade diverse, sentieri non tracciati sulle carte. Io un artista non lo sono e le mie performance non appariranno mai nei manuali di psichiatria. Ero sdraiato su un prato e immaginavo di essere tutt'uno con il mondo. Scomparivo e non parlavo, non vedevo, non mangiavo per giorni. Poi la resurrezione con movimenti fluidi e il sorriso semplice di chi arriva a tavola quando è pronto. Già visto. Ero un foglio su cui incidere la mia sofferenza. Farsi oggetto è stata l'esperienza più semplice della mia vita e con infinita naturalezza il dolore era anch'esso oggetto e finalmente comprensibile. Poi mi sono lasciato prendere la mano e ho inciso, inciso, con cattiveria, crudeltà, massacravo quel corpo inerme e tornavo uomo, crudele, cattivo, sofferente. E' stato bello farsi curare per mesi interi, ma niente di più. Giurai di non farlo più perché in quel modo, mi spiegarono, facevo del male anche a chi mi stava vicino. E le mie performance calavano con la velocità con cui le dita degli infermieri entravano nella mia bocca spalancata. Una sorsata, deglutisci, apri di nuovo. Già visto. Dopo un po' cominciai a trovare divertente utilizzare la stessa procedura per magiare il rancio precotto. La psicologa della Salute Mentale seduta ai piedi del mio letto sosteneva che potevo far così anche con la vita. Mettere le cose che non mi piacciono, che mi fanno star male, in fondo alla lingua e con una sorsata d'acqua fresca buttarle giù. Cominciai a bere molto. Le infermiere ridevano quando in presenza di qualcuno che dava i numeri mi vedevano versare l'acqua, io sorridevo con loro. Quando il mio compagno di stanza tentò di suicidarsi nessuno rise nel vedermi sdraiato sul letto direttamente attaccato alla bottiglia dell'acqua. Nessuno in quel momento mi notò e capii che il mondo non era cambiato, che era sempre la solita merda, che da nessuna parte avrei trovato il mio posto nella società e che potevano andare tutti a farsi fottere. Psicologhe, infermiere, matti, lavandini, comodini, sedie e letti. Fanculo l'ospedale. Stavo perdendo tempo lì. La mia fuga non era ancora iniziata e già mi avevano messo dentro. Tempo due settimane e fui fuori. Il sano lo so fare male quanto il matto, ma c'è sempre bisogno di letti liberi ed è facile far vedere ad uno psichiatra ciò che vuole vedere.
Però un po' mi dispiacque quando uscii. L'idea di essere un matto l'avevo sempre ritenuta allettante e farla cascar così, in meno di un anno... Inoltre un perverso romanticismo mi ha sempre fatto sognare l'amore in manicomio. Matti che si incontrano, uguali e diversi dal mondo. E' un po' che non mi soffermo su questo pensiero, in effetti, ma in quei giorni sofferti l'idea di poter condividere la mia sofferenza con qualcuno era il solo stimolo ad andare avanti. A camminare: questo era il solo modo di procedere che allora mi riusciva. Dritto per dritto, in quella strada, che era sempre la stessa davanti a me. Solo i pensieri scandivano il tempo e segnavano i chilometri percorsi. Dov'ero ieri? In mattinata ripensavo alla mia prima ragazza, al primo bacio, alla prima volta che ho fatto sesso. Nel pomeriggio immaginavo il mio capo quando avrà scoperto che me l'ero filata lasciando il casello scoperto e in serata ho attraversato il pensiero della mia morte su questa strada. Prematura, forse, ma pur sempre dignitosa. Poi i sogni e al risveglio ero in un altro ricordo della mia giovinezza. Piacevole, per lo più, ma turbato dall'inconsistenza pomeridiana, ne sono certo. Viaggiando riuscivo ad attutire il presente e, limitando il mio fare al seguire la strada davanti a me, il mio ora era un passato nella memoria o un futuro della fantasia. Poi, quando era troppo buio per procedere, aprivo una scatoletta di carne, ne mettevo alcuni bocconi in fondo alla lingua e con una sorsata di acqua fresca buttavo tutto giù. Così potevo dormire. E sognare.