Tutti siamo soli in questo mondo.
Molti pensano di esserlo più di altri.
Qualcuno lo è.

11.3.10

Ora vado avanti veloce.

Sono seduto a gambe incrociate sull'argine della strada e cerco di stendere la cartina che il troppo vento richiude. Le macchine non aiutano. La fisso con alcune pietre. Sono accanto ad un vecchio musicista che con la chitarra biascica qualche canzone di De André. Passo con il cappello tra il pubblico distratto mentre il vecchio chiude gli occhi trasportato da note che vorrebbe e che non escono. Quando mi presento con il bottino non capisce e facciamo a metà. Avrà pensato ad una generosa elargizione. Seguo la strada con l'indice fino a Parigi. Poi Lione, Torino, Genova. No, non posso tornare. Si accosta la macchina e sento lo scatto delle sicure. Un coltello spunta dal sedile posteriore e mi si adagia sul collo. Freddo. Ha sempre quella dolce consistenza che inebria. Di quando adolescente mi incidevo le iniziali della mia ragazza sul braccio. Dolce, concreta consistenza. Si ferma un pulmino pieno di ragazzi strafatti. Non ci voglio credere. Qua ci scappa un grande viaggio. Scrivo con il pennarello “Parigi” su un foglio A4. Non si capisce un cazzo. Il cielo sopra Parigi è stupendo.

Son quasi pronto per fermarmi, ma ci vorrebbe una casa, un posto, un luogo, una moglie che mi aspetti a casa, io che torno da lavoro e facciamo l'amore.

Le afferro il dorso della mano. Glielo lascio. “Volevo...” “Volevo dirti una cosa. Ma non so come fare. Che parole usare. Volevo chiederti”.

“Perché non ti fai una donna?” mi chiede il mio autista.
Beh. Non c'è un motivo specifico. E' che non capita. Cioè, lo so, sono io che non lo faccio capitare, lo so, non creo le circostanze. Però a volte ho proprio l'impressione di non piacere. Mi spiego?

“Volevo. Volevo chiederti se secondo te in un futuro c'è la possibilità che io e te si stia insieme. In un futuro immediato, intendo.”

Arturo Bandini, l'autore di “E il cagnolino rise”, è un personaggio che conquista gli adolescenti per un sacco di motivi, il primo dei quali è che, pur essendo uno sfigato, piace alle donne.

No, lo so che non riesco a spiegarlo perché in realtà non riesco a spiegarmelo neanche io. Com'è possibile che pur desiderando così tanto una donna accanto io faccia in modo che ciò non succeda?

Forse ora le cose sono un po' cambiate, sono quasi pronto per fermarmi, ma ci vorrebbe una casa, un posto, un luogo, una moglie che mi aspetti a casa, io che torno da lavoro e facciamo l'amore. Sarebbe qualcosa di nuovo. Anche se non so se sarebbe ciò che sto cercando. A Parigi. Lione. Torino. Finché viaggi niente è reale. Chissà cosa mi è preso quella volta che mi sono messo ad inseguire i controllori della metropolitana che inseguivano il tizio senza biglietto. Poi stanco morto mi sono fermato prima di tutti gli altri. E ancor prima di riprendere il fiato sono scoppiato a ridere. Ridevo in italiano, da solo, ridevo come un matto e nessuno capiva. Ma qualcuno vedendomi ridere mi sorrideva. Ho buttato il diario nella Senna. Poi ho provato a riprenderlo con un bastone ma il lancio era stato troppo bello: nel volo alcuni fogli si staccavano e l'atterraggio è stato lontanissimo. Ho recuperato due fogli, gli altri li ho riscritti la sera stessa, intanto quel quaderno ce l'avevo solo da una settimana. Indicare le città sulla cartina mi dà potenza. Mi sento ora padrone del mio destino. Eppure l'ombra della macchina sulla cartina mi terrorizza. Le mie ombre. Sarebbero tornate?

Arturo Bandini, l'autore di “E il cagnolino rise”, è un maledetto, è incazzato nero contro l'amara roulette della vita che lo ha fatto nascere contemporaneamente povero, italiano e immigrante. Piace alle donne perché deve lottare contro questo destino.

“Ok. Lo accetto. Capisco. Anzi no. Lo accetto, ma non capisco. Dimmi perché, dammi una ragione. Perché non possiamo stare insieme? Dimmi qualcosa. Qualunque cosa. Dimmi che sono brutto. Dimmi che sono scemo. Dimmi che non ti piaccio”

No, non è vero che non è colpa mia.

No.

“Caro mio, se alla tua età ti fai di questi problemi stiamo freschi. Ragazzo, devi spaccare il mondo. Quant'è che non trombi? Ma stai scherzando? E come hai fatto a resistere per tutto questo tempo?”
Ho fatto.
“Ti ammazzerai di seghe?”
Aumentano il mio senso di colpa.

Dopo aver dato al possessore del coltello il portafogli con i pochi soldi che avevo messo da parte mi sono reso conto che non mangiavo da ventiquattro ore. Quando non puoi mangiare poi la fame aumenta, sa? Pensavo di morire. Sono andato al solito bar e non so cosa pensavo ma nella mia testa prima della fine del panino il problema si sarebbe risolto. Poi è finito il panino e il problema non si era ancora risolto. Mi dispiacque un sacco, glielo giuro. Avrei voluto scomparire. Sono andato in bagno dandomi quella come ultima possibilità per inventare qualcosa, ma niente. Quando sono tornato in sala non c'era più nessuno ed è stato istintivo: sono scappato. Ho corso per due minuti e poi mi è cascato nuovamente il mondo addosso: avevo dimenticato il mio diario dentro. Sono tornato indietro, non avevo scelta, capisce? Fermo davanti alla vetrina su cui dava il mio tavolino vedo il diario e la cameriera che proprio in quel momento, raccogliendo il piattino, realizza l'accaduto. Poi mi vede, sgrana gli occhi e, se il riflesso del sole sul vetro non mi ha ingannato, mi fa segno di andarmene. Ma non potevo, capisce? Forse, quando sono entrato, ha pensato che mi volessi consegnare, perché sembrava davvero dispiaciuta di dovermi denunciare all'altro cameriere, quello grosso.
Uscendo dalla centrale di polizia gettai il diario nella Senna, poi provai a riprenderlo con un bastone.

“Comunque sono vissuto fin'ora senza di te e non vedo perché non potrei farlo ancora. Solo che è davvero strano. E' incomprensibile. Forse tu non vuoi stare con me perché te l'ho chiesto male. Perché ho aspettato troppo tempo o troppo poco. Forse perché non ho colto quell'occasione in riva al mare, soli, io e te. Forse perché non mi sono mai fatto avanti esplicitamente. Forse perché l'ho fatto e dovevo aspettare un tuo segnale. Forse... Sarebbero tutti motivi stupidi per non stare insieme.”

Ho paura di essere nuovamente lasciato e finisco per lasciare prima io. Tutto. Il lavoro, gli amici, la mia vita.
Certo, non mi viene in mente cosa più stupida che si possa fare.

E ora?

Ora passo con il cappello in fondo a quei mucchietti di gente che si formano intorno agli artisti di strada particolarmente bravi. La maggior parte della gente se la intaglia e mi ignora, ma qualcuno ci casca. Faccio comunque più di una semplice colletta.

E non risolvo un cazzo.

Comportandoti in maniera folle si forma un mucchietto di gente che ti osserva curiosa facendo finta di niente e sperando di non essere notata in quell'atteggiamento voyeuristico e indiscreto. Se poi ad un tratto sveli il gioco dichiarandoti artista di strada e indicando quella appena svolta come una performance la gente per senso di colpa, o forse è meglio dire per vergogna, si sente in debito con te. Giù soldi.

E non risolvo un cazzo.

Finché viaggio niente è reale. E non risolvo un cazzo. Accenderò un'altra candela e permetterò nuovamente alla mia ombra di formarsi dietro di me. E di spaventarmi. Ingenuo.

Ecco come sono arrivato al BlueLips bar.

2.2.10

Poi, un giorno, finì il decennio e conobbi Suzanne. Non può il capo di un uomo restare troppo tempo chino. E non potevano i miei occhi restare troppo a lungo fissi sui miei piedi. In un negozio di elettrodomestici eletto a rifugio pomeridiano dal freddo, ricordo, avevo notato nell'enorme schermo del televisore LG offerto da Sky un “-3” sotto il logo di MTV. Il giorno dopo lo stesso fenomeno si era riproposto sopra il logo di Italia 1. Questa volta c'era un “-2”. L'evento doveva essere di grande interesse; valeva la pena rompere il mio ostinato e astioso silenzio. Parlai, domandai, chiesi in giro. Ottenni una decina di insulti e altrettante risate: la gente è solita reagire in maniera bizzarra a ciò che non comprende. Io bestemmiavo e ridevo con loro, tanto per non sembrare troppo strano, li assecondavo. Quando, però, unendo gli indizi, svelai il mistero, capii che qualunque cosa avessi detto, con quella iniziale domanda l'etichetta di “strambo” era già cucita. Di lì a due giorni il mondo avrebbe festeggiato quei dieci anni che io avevo passato a cercar di fuggire, di perdermi, di sparire. Lì per lì la notizia non doveva essermi parsa di grande interesse, ma poi qualcosa cambiò. Sarà stata la coscienza di essere in un periodo consono al tirar le somme o quel vedermi circondato da schermi e da persone che avevano occhi solo per quegli schermi, insomma, mi invase una sensazione di vittoria. Ce l'avevo fatta. Ero scomparso. Perso, sparito, fuggito.




Ora che ero morto potevo rinascere. Diventare un nuovo personaggio di uno di quei romanzi che narrano la vita di un'intera dinastia. Sarei stato il figlio di quello di prima. Intrinsecamente legato agli antenati di cui conosciamo vita, morte e miracoli, ma pur sempre un personaggio tutto da scoprire.
Decisi di tenere un diario di viaggio: una prima testimonianza della mia nuova vita. Scrivevo, cioè, di me per prendere confidenza con l'idea di esistere. Per permettermi un quaderno e una penna avevo dovuto cominciare a chiedere l'elemosina e la cosa, se ben ricordo, non mi dispiaceva affatto. Conoscevo, anche se per brevi attimi, un sacco di persone e la colletta mi permetteva di passare i pomeriggi in bar e pizzerie: rifugi più consoni alla mia nuova attività di scrittore. Dopo un mese di lavoro mi ero comprato una borsa in finta pelle per conservare tutte le carte, del tabacco da girare per fumare tra una pagina e l'altra e un set di evidenziatori per meglio orientarmi tra i miei scritti. Ero conscio di non star componendo una grande opera, si trattava per lo più di liste di cose viste, di cibi mangiati e di dolori avvertiti. Il tutto, però, mi faceva stare bene. Fu in uno di questi momenti di pace con me stesso che vidi per la prima volta Suzanne.




Ero seduto in un bar a compilare il mio diario e avevo appena convinto la cameriera a portarmi un panino senza bibita, senza contorno e senza menù speciale quando una ragazza di poco più di un metro e mezzo, con capelli castani corti ed una treccina che le scorreva lungo il collo, con gli occhi chiari e un forte rossetto rosso sulle labbra, con un sorriso strano e le mani un po' sporche, si sedette al mio tavolo e cominciò a fissarmi. Annotai subito sul diario l'accaduto evidenziandolo con un fucsia grandi occasioni.
-Che fai?- mi disse.
-Prendo nota-
-Hai sbagliato prima- continuò non badando più di tanto alla mia risposta -A non prendere il menù speciale, intendo. E' un'occasione. Se pensi di non riuscire a finirlo ti posso sempre dare una mano io-
Sorrideva ancora. Pensai che non avrei voluto risponderle in maniera maleducata, ma anche che forse non ero più in grado di essere educato. Poi mi uscì qualcosa del tipo: -Che, non hai neanche i soldi per prenderti delle patatine?- Non era un granché e lei ne arrossì, ma senza smettere di sorridere avvicinò la bocca rosso ferrari al mio orecchio destro e sussurrò: -Sono una nobildonna francese caduta in disgrazia per colpa di certi poveri come te che si sono ribellati. Come minimo dovresti offrirmi delle patatine-.
Ribattei, forse credendoci troppo, che le patatine se le poteva scordare e che comunque, viste le vicissitudini passate, era già fortunata ad avere ancora la testa sopra il collo. Ma forse avrei dovuto dirle che non avevo soldi a sufficienza, forse l'avrei fatto, se lei non mi avesse interrotto.
-Poteva andarmi peggio!- mi disse infatti con fare molto divertito -Eh sì...poteva andarmi peggio!- Poi, sforzandosi di assumere un atteggiamento più serio, aggiunse: -Sai? C'è un vecchio contadino nei miei possedimenti che, ogni cosa che gli viene riferita, risponde con un “Poteva andare peggio”. Un giorno gli dicono che il suo vicino è morto suicida dopo aver scoperto e ammazzato la moglie con l'amante. Lui, al ché, risponde con il solito “Poteva andare peggio” e poi, vedendo la faccia sbigottita dei presenti, aggiunge: “La settimana scorsa a letto con sua moglie c'ero io”-.
Detto questo quella strana ragazza cominciò a ridere così scompostamente da imbarazzare persino me. E mentre, fronte aggrottata, cercavo di capire il motivo di quel racconto oltre che di quella eccessiva risata, mi schioccò un bacio sulle labbra e si allontanò, ancora ridendo, dal bar. Quella sera sfilai dal cellofan l'evidenziatore azzurro e nella giornaliera lista di cose fatte evidenzia la parola “bacio”; anche se, a dirla tutta, io non avevo fatto proprio niente.




Il giorno dopo rividi la stessa ragazza in un altro bar della via Emilia, dieci chilometri più vicino a Parma rispetto al precedente. Doveva aver percorso in macchina ciò che io avevo percorso a piedi. Era abbracciata ad un ragazzo sui trent'anni, sguardo assente e labbra leggermente incurvate in un sorriso. Mentre venivano a sedersi nel tavolino vicino al mio lei mi scagliò uno sguardo e, credo, un occhiolino. Dopodiché non esistetti più e, pubblico in ombra di un palco ben illuminato, assistetti a scene di ordinario corteggiamento e frivolezze varie. Tra l'annoiato e l'infastidito per l'eccessiva banalità dell'opera, soprattutto rispetto all'originale della prima, decisi di andarmene. Rinfilai tutte le carte nella borsa e andai a pagare alla cassa. Fu in quel momento, in un'ultima occhiata al palco, che notai una mano di lei infilar un pasticcino nella bocca di lui, mentre l'altra mano gli sfilava dalla tasca del cappotto il portafogli. Questo era troppo. Quella ragazza doveva essere un discorso chiuso. E così sarebbe stato se il giorno seguente non si fosse fermata sul ciglio del mio passeggiare un'auto sportiva col tettuccio aperto e lei all'interno.




Insieme alla ladra in quella macchina c'era un ragazzo alla guida, uno che non avevo mai visto e che a pelle non mi risultava molto simpatico. Mi fece segno di salire. Obbedii. Mi sistemai sul sedile posteriore tirandomi su il cappuccio della felpa e incrociando le braccia al petto per il troppo vento. Attraverso il freddo li vedevo scherzare. Dopo una ventina di chilometri ci fermammo per mangiare una cosetta insieme, il tizio sconosciuto mi aveva fatto segno di seguirli. Due passi dopo di loro cominciavo a capire tutto: era la storia di un'autostoppista ladra che incantava i ragazzi e rubava loro i soldi. E capivo l'occhiolino di complicità il giorno prima, il suo avvicinarsi a me quello ancor prima. La trama della farsa era spiegata e io da pubblico diventavo attore. Per un attimo pensai di avvertire il ragazzo, di fermarla e forse di farla arrestare. Ma il ruolo che sentivo calzarmi meglio era quello di complice, quello che probabilmente lei aveva scelto per me. L'occhiolino, il bacio, quel viaggio in macchina: erano le uniche cose che ci potevano collegare, ma non ci avrebbero scoperto mai.




Poco dopo esserci seduti e aver ordinato la mia complice andò in bagno lasciandomi il compito della conversazione. Dovevo svolgere al meglio la mia parte e ci provai, ma non fu per niente semplice, tanto che dopo poco, invaso dall'imbarazzo, mi misi ad annotare sul diario quello che di lì a poco avrei mangiato. Lui allora, per uscire a sua volta dalla difficile situazione, la andò a cercare in bagno promettendo ad alta voce unioni clandestine là dove si sarebbe trovata. Poi uscì dal locale, rientrò correndo e riuscì ancora più velocemente, urlò disperato: -Quella stronza mi ha fottuto! Figlia di troia! Porca puttana! Mi ha fottuto la macchina!- Urlava, imprecava e chissà che faccia stavo facendo io. Probabilmente un misto di sorpresa e delusione, un'espressione buffa e scema, sicuramente. Il tizio poi venne minaccioso da me: -E te? Non sei suo complice? Cosa cazzo ci fai ancora qua? Perché non sei scappato con Suzanne?-
-Suzanne?- non sapevo neanche si chiamasse così -Non la conosco. Giuro.- E di sicuro lo stupore e la delusione erano ancora ben impressi sul mio viso perché mi credette.
-Ma allora perché ha voluto che caricassi su anche te?-
-Non lo so. Davvero. Non lo so-
-Mah... Avrà voluto fregarne due invece che uno quest'oggi- concluse lui con rassegnazione.
Certo, per rimediare al flop di due giorni fa, pensai io. Ma non lo dissi.




Ci fermammo a mangiare ciò che si era ordinato, compreso il menù speciale con doppia razione di patatine scelto da Suzanne, e alla fine pagai io con l'intera colletta di due giorni, poiché il mio compagno di sventura era rimasto anche senza portafogli. Poi chiacchierammo per un paio d'ore di donne, di fregature, di Suzanne e di quanto, tutto sommato, fosse veramente bella. Ci trovammo concordi sul fatto che mai eravamo stati lasciati da una donna così velocemente, ma che questa storia in sostanza non era molto diversa da altre che avevamo vissuto. Mi sorpresi ad aggiungere: -Dai, poteva andare peggio. Almeno non abbiamo dovuto conoscere i suoi genitori-. Infine accompagnai il mio primo nuovo amico alla stazione e lì ci salutammo per sempre.




Nei mesi che seguirono spesso ripensai a Suzanne. Occupava gran parte dei miei pensieri. Non ero arrabbiato. Provavo un forte sentimento per lei; forte, violento e incontrollabile. A volte mi convincevo che fosse amore, altre volte concludevo che era solo curiosità. E mi interrogavo: come potevo confondere le due cose? Non riuscivo a capirlo. E non capivo neanche perché di tutte le ragazze di questo mondo io ero curioso di conoscere solo questa maledettissima Suzanne.